Le tartarughe di Mazunte
di Federica Aldighieri
Sono ormai numerosi i partecipanti ai viaggi in Messico che hanno avuto la fortuna di conoscere Mazunte, piccolo villaggio di pescatori nello stato di Oaxaca. A Mazunte vivono gran parte delle famiglie che in passato traevano il proprio sostentamento dallo sfruttamento delle tartarughe, attività poi vietata dal 1990. Nel 1992, grazie anche al sostegno di Ecosolar, un gruppo ambientalista messicano, Mazunte è diventata Riserva Ecologica.
Gravi problemi ha avuto Mazunte dopo il passaggio di un uragano distruttivo nel 1999. All’epoca alcuni viaggiatori Pindorama avevano fatto colletta e inviato fondi per aiutare la ricostruzione di qualche bungalow.
Da questo piccolo paradiso ci arriva un articolo scritto da Federica, una partecipante al viaggio in Messico dell’agosto 2001, su una giornata speciale “a caccia” di tartarughe...
Ore 7,30 sveglia perché andiamo ad aspettare i pescatori di ritorno in spiaggia. Si va a “caccia” di tartarughe. Che non si faranno cercare molto. Ma prima meglio raccontare la tecnica di uscita della barchetta a motore che deve affrontare cavalloni di 3-4 metri. Non so come possa farcela. Siamo caricati insieme ai pesci frutto della notte di pesca. Sono colorati, lunghi con un ago o corti e piatti, quasi tondi con un bel colore rosso-dorato e poi c’è un secchio con qualcosa di guizzante. La barchetta ce la fa, riesce a prendere la sincronia giusta per salire su un onda non ancora rovesciata e in quel momento i tre pescatori che ci accompagnano danno forza al motore che riesce quindi a portare il suo carico di una decade di persone e neanche un quintale di pesce fuori dalla forza dell’onda. E così per una successione velocissima di almeno quattro cinque volte per superare il muro di quell’oceano che non si dimostra molto Pacifico. Fuori dal muro ancora nella baia la situazione è comunque molto agitata e la nostra barchetta deve prima consegnare il suo carico di pesci in un pueblito raggiungibile solo via mare e incastonato tra faraglioni e scogli dove l’Oceano infrange il suo muro ogni pochi secondi. La barca si ferma, valuta…. Una mano sulla spalla mi comunica che non va oltre, non ce la farebbe, e il pescatore mi fa cenno che si butta lui. Raccolgono allora quasi tutti i pesci dal fondo e in due secchi vengono passati al pescatore già in acqua ad aspettarli. La barchina inverte la rotta e si ritrova di fronte di nuovo i muri delle onde della seconda linea…ma infine la quiete relativa del largo arriva. E il primo guscio galleggiante appare. Sembra un enorme cocco invece esce una testona in su e quattro zamponi. E poi un tuffo rapido verso la profondità nell'acqua trasparente. Si vede che va giù giù. E poi una domanda che vola “”Quien quieres nadar con las tartugas?” Yo! Il prossimo enorme guscio di noce è anticipato nella sua traiettoria verso il fondo da un tuffo prontissimo del mio amico pescatore. E così dopo poco in acqua siamo in tre io, Pablo e la tartaruga. È possente, è bella, è un po’ spaventata. La lasciamo quasi subito andare ma faccio a tempo ad ammirare questo animale antico in tutto il suo fascino, con le sue quattro enormi zampe squamate di pelle dura e i suoi occhi vivi. Ancora in acqua guardo verso la costa segnata da una lunghissima linea di spiaggia bianca dove le tartarughe vanno a deporre le uova e sullo sfondo le montagne della sierra che con i loro tremila metri fanno da sfondo imponete. Ma prima selva, e selva, e selva.
Risaliamo in barca assieme agli altri e Pablo finisce di chiedermi le cose che sempre si chiedono in una fase di approccio per dirmi di lui….è orgoglioso della sua scelta di quello che gli aspetta. Di lì a poco lui partirà e se ne andrà negli Stati Uniti. Ma lui non sarà uno dei cinque milioni di messicani clandestini. Lui ha un permesso regolare. Una richiesta di Lavoro. È una cucina di un ristorante dove lavora già metà della sua famiglia scappata clandestinamente.
Intanto finché parliamo la barchetta ronza con il suo motore in mezzo alle onde possenti e uno alla volta compaiono decine di delfini che vengono a giocare cono noi. Affiancano la barca gli passano sotto e fanno salti meravigliosi. Saranno una trentina e li vedo sotto il pelo dell’acqua, lente di ingrandimento sulla loro pelle macchiata e lucida, a volte con segni e cicatrici. È un’ora di incanto che non dimenticherò, dove però stranamente si incrociano immagini lontanissime tra loro: un paradiso di sabbia bianca , di onde e di delfini come compagni di viaggio e immagini di una piccola cucina fumosa in una grande città degli Stati Uniti.
E intanto la barchetta ronza. Si torna e l’approdo è quello che si può definire un rischio.
Cinque minuti passano ad una cinquantina di metri dalla riva a controllare che non ci siano malcapitati bagnanti tra le onde che ogni pochi secondi alternano le scenografie. Le urla per segnalare la nostra presenza sono prodigiose. Poi si parte con il motore a mille verso le rocce che si avvicinano sempre di più. Le onde di tre metri sono sempre quelle. Mi tengo il più forte possibile come mi hanno ordinato. E le rocce li in fondo non si muovono. Cominciamo a planare sollevati da un onda e poi il colpo dell’atterraggio e un blocco brusco ed improvviso con le rocce a pochi centimetri. Il ragazzino che con la coda dell’occhio avevo visto di fianco, con una maestria di esercizio ripetuto molte volte ha bloccato la nostra corsa: ha buttato velocemente un tronco trasversale alla nostra traiettoria ; non poteva sbagliare.
Il racconto di Pablo si era interrotto ma ci rimangono poi altri minuti per chiacchierare: è entusiasta del suo progetto di cambio di vita; della famigli che rivedrà, e del nuovo lavoro. La città che lo aspetta è Manhattan. Era prima dell’undici settembre.
Tutti insieme sistemiamo l’eroica barchetta nella sua rimessa sotto le palme.