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Pindorama

Pane e penne

di Sabina Bollori
Di un viaggio non sai se raccontare seguendo il filo dei giorni, del tempo che si dispiega da un gomitolo – e svela il mondo, come nel logo di Pindorama e Llacta tour – o seguendo il confluire di immagini, esperienze, volti che si rincorrono,si affacciano tutti insieme alla memoria, in un paesaggio fitto, vivace, pieno di colore. E anche viaggiando è così, a volte si è preoccupati di “tenere il filo”, di seguire l’itinerario, e altre volte semplicemente si respira tutto ciò che si apre davanti agli occhi, lasciando che un nuovo mondo ci prenda e ci restituisca a noi stessi. Il viaggio può essere una rivelazione, una scoperta, ma anche un ritorno, un ritrovarsi. Il viaggio diventa molto spesso una riapertura dei sensi, troppo a lungo sopiti e addomesticati su binari consueti, dove ogni odore è conosciuto prima ancora di essere percepito. Uno dei primi impatti con il Perù è stato uditivo. La lingua anzitutto, dolce e asciutta nello stesso tempo, una lingua che mette confidenza, avvicina. La lingua del benvenuto caloroso che riceviamo, poco dopo essere atterrati a Lima, da chi ci accompagnerà per buona parte del viaggio. E poi il rumore incessante di Lima, il mormorio sommerso di una città che non trova pace neanche di notte, un mostro marino sonnolento che sbuffa alle narici, con una spina dorsale che pare fatta di clacson. Lima, acquattata sulla piattaforma del continente sudamericano, ore e ore per attraversarla da un capo all’altro, otto milioni di abitanti, un terzo della popolazione del paese, sfila davanti ai nostri occhi volta a volta increduli,sgomenti, incuriositi, ammirati. Una città dai molti volti, dai forti contrasti e il pregio del viaggio è poterli vedere tutti, l’una e l’altra faccia della moneta, come dicono i nostri accompagnatori peruviani. La prima tappa del viaggio è anche un po’ la chiave per capire il seguito, il tentativo coraggioso di farci capire di più, di avvicinarci di più, di mettere insieme diversi mondi e diverse esperienze, dentro una vacanza. Guardare al Perù dal cimitero di Villa El Salvador, lo sguardo che spazia sull’enorme distesa di abitati cresciuti sul deserto, che a noi pare invivibile, è guardare ad un Perù che non ci si aspettava, un’opportunità che altri viaggiatori non incontrano, e che fa star male. Eppure Villa El Salvador, nata come tante altre bidonville, è oggi una testimonianza di autogestione comunitaria e di organizzazione democratica che ha ottenuto vari riconoscimenti internazionali, un modello cui molti guardano con speranza, perché la gente qui sta meglio, ci sono alcuni servizi pubblici, il tasso di analfabetismo è tra i più bassi. Tutte cose non visibili, specie con i nostri occhi esterni, ma che diventano visibili quando sono accompagnate dalla parola, da chi ci racconta com’è il suo paese, cosa c’è dietro tutto quello che vediamo, annusiamo, tocchiamo. Così l’esperienza del viaggio diventa un racconto, che via via ci parla della storia del paese e dei suoi popoli, del senso d’impotenza e d’inferiorità che rende difficile sperare e agire per un cambiamento, ma anche di piccole esperienze di coraggio, di determinazione, di organizzazione collettiva che riescono a costruire un presente più sostenibile, e progettano un futuro migliore. Dal nostro gomitolo che si srotola, emergono le varietà di vita, dai villaggi rurali alle cittadine, dagli altopiani andini alle valli più fertili, dai centri d’interesse turistico alle realtà agricole. Bambini, donne e uomini che vivono in questo paese d’altitudini, dove l’economia domestica è sufficiente a sfamare, ma non a dotare tutti i figli - otto o dieci figli per famiglia è una condizione molto diffusa - di libri, divise, materiale per andare a scuola. Nei villaggi dove arriviamo portiamo in dono pane e penne (richiestissime), raccogliendo attorno a noi nugoli di bambini vivaci e curiosi ed è grazie a loro che ci sentiamo un po’ meno stupidi, quanto invece grati dello scambio, del gioco, della conversazione. Anche della conversazione adulta, che nasce attorno ad un focolare ad Amantanì, all’interno di una cucina in adobe, dove possiamo chiedere, e ascoltiamo raccontare delle semine, della salute, dei figli, del vivere sull’isola. Oppure negli incontri con le organizzazioni di lavoro, piccole cooperative di artigiani e di donne che ci accolgono in festa, dentro la loro comunità, o anche in malinconia, perché le richieste di prodotti dall’Italia non sono più quelle di un tempo e il loro lavoro è fortemente ridotto. Sono momenti che arricchiscono il viaggio, offrono opportunità di mettersi a confronto, di interrogarsi, di essere più consapevoli dei luoghi che stiamo attraversando, della gente e delle culture che oggi ci vivono. E’ un bene che sia così, perché l’incanto è comunque forte, e ancora dal gomitolo esce un paese di paesaggi vastissimi, di siti costruiti su luoghi inverosimili, di cieli sconfinati, di continue occasioni di meraviglia. Un paese dove, quando è notte, si fa davvero buio, e silenzio, un silenzio così forte e compatto che ne avverti improvvisamente la presenza, di soprassalto.