In viaggio di nozze con la mia sig.ra Eneida
di Lara Liberti
Non basta un viaggio di diciotto giorni voli inclusi per permettersi di parlare di un paese.
Un viaggio di diciotto giorni voli inclusi basta però per raccogliere delle impressioni, conservare il ricordo nitido di facce, parole e gesti, l’odore dell’aria e i suoni.
Basta per cominciare a stringere in una treccia delle relazioni che hanno tutto in regola per diventare delle amicizie e che trovo bello affondino le loro radici in un viaggio.
Antonio e io siamo andati a Cuba per festeggiare in un modo che a noi piace – viaggiando – il nostro matrimonio.
Proprio a Cuba perché volevamo sperimentare la via castrista al comunismo, respirare finalmente aria di famiglia, soffocati negli ultimi tempi dalle spudorate e vergognosamente interessate trovate di un signore pelaticcio con i tacchi negli stivali, che comanda il nostro paese.
Proprio con Pindorama perché essendo il primo viaggio fuori dell’Europa, volevamo andarci con un supporto esperto e non da “ai, ai, ai turisti fai da te”, come abbiamo sempre fatto e certo era inconcepibile per noi un’agenzia di viaggi tradizionale, che ci avrebbe spediti per certo o quasi in un villaggio vacanze, saldamente ancorati all’ombrellone e ad un piatto di spaghetti arrangiati, con la possibilità di fare qualche remota sporadica escursione.
Dopo questo viaggio, so d’essere sempre stata una turista responsabile. Viaggiando ho sempre cercato di conoscere le persone del luogo dove mi trovavo, mangiare il loro cibo, parlare la loro lingua, vagare cercando i posti quotidiani, inibiti a qualsiasi guida di viaggio di carta o di carne.
Dunque a Cuba con Pindorama, in quattordici, più la guida Gilberto, la moglie Lydia, gli autisti della guagua Salvador e Ramon, la guagua senza nome.
Il primo impatto con l’Havana, la sera tardissimo, con Gilberto, con l’afa, il pulmino e nelle case in cui all’Havana siamo stati ospitati.
Prima ancora un po’ di conoscenza sull’aereo con i compagni di viaggio e già le prime impressioni.
Se devo essere sincera, dei primi giorni all’Havana non ho capito quasi niente.
Siamo approdati subito al “Dos Hermanos”, uno dei locali della Città Vecchia dove Hemingway era solito farsi un mojito. Il mojito lo fanno ancora e qualcuno di noi ha bissato la colazione in una versione alcolica (Antonio non negare…). Del resto come resistere alla bevanda dell’isola?
Poi abbiamo continuato girando l’Havana Vieja, ma per i miei gusti, un po’ rapidamente e naturalmente tutti insieme. Forse è stato bene così. Stare insieme ci ha permesso di conoscerci, ma un serpentone bianco di quindici coi cappellini colorati in giro per una città bianca, nera e meticcia si fa notare e consente di intrufolarsi poco e poco di rallentare o fermarsi a caso, dove gli occhi, le orecchie e gli altri sensi ne avrebbero la voglia o la necessità.
All’Havana siamo tornati gli ultimi giorni, prima del ritorno in Italia e in quell’occasione, divisi a piccoli gruppi spontanei abbiamo “disfrutado” meglio la città. Per esempio scoprendo un’antica profumeria di colonie havanere, arredata in stile liberty, con profumi buonissimi venduti in romantiche boccette di vetro decorato e tappo di sughero e commesse svogliate e antipatiche, ma che niente potevano contro il fascino del luogo.
Non si può perdere il Museo della Revolucion. Didascalico, ma foriero d’interessanti informazioni, compreso un video sul Che, con vita, morte e miracoli dell’eroe dell’America Latina.
Il viaggio è proseguito in varie zone della parte occidentale dell’isola (vi risparmio la cronaca dettagliata…). Siamo approdati a Somoa, Vinales, Pinar del Rio, Sancti Spiritus, Trinidad, Santa Clara, Cayo de las Brujas. Di queste tappe mi ricordo in ordine sparso l’orchidea al profumo di cioccolato dell’orchideario di Soroa (valida alternativa dietetica ma temporanea ad un’abbuffata di nutella), le case colorate sotto la pioggia tropicale di Vinales, l’accoglienza calorosa e fraterna ricevuta alla sede della Fundacion de la Naturaleza y del Hombre a Sancti Spiritus, la gita nella grotta con fiumiciattoli interni, miniscalate e pipistrelli, i pesci colorati del Cayo de la Brujas e i colori del mare, ma soprattutto la mia Senora Heneida, a casa della quale siamo stati ospiti a Trinidad.
Cinque giorni consecutivi a Trinidad nella casa coloniale di una bella signora nero dorato, biologa analista all’ospedale, con i figli dottori, il marito vigilante (della casa, almeno così ci è parso) e un nipotino scatenato che non abbiamo avuto il piacere di conoscere.
Cinque pomeriggi sulle sedie a dondolo a chiacchierare insieme come con gli amici o più con la famiglia, sorseggiando uno dei buonissimi succhi di guayaba di Heneida, che li faceva apposta, perché sapeva che mi piacevano un mucchio. A parlare dei nostri mestieri e dei loro, della vita di ogni giorno, della vita di mamma giovane e bella con un figlio e senza compagno della figlia di Heneida, di ricette, di viaggi, di come ci percepiamo gli uni gli altri (noi i cubani, loro noi stranieri turisti Lara e Antonio). La sera quando ci preparava la cena, servito a tavola se ne andava discreta, poi ripassava a scrutare se c’era piaciuto, se avevamo mangiato tutto e ci chiedeva com’era andata, cosa avevamo apprezzato di più.
Parla fiera Heneida ma senza arroganza né lamentele. Dice le cose belle e brutte con rigore, quasi con sereno distacco e poi sorride, per esempio quando dice che le lingue non ha voglia d’impararle, non ha la testa e ci parla in spagnolo, stupita un po’ perché io parlo anche se alla mia maniera, mentre Antonio ascolta (è solo che non sa la lingua, ma lei dice che gliela devo insegnare…).
Le ho chiesto se per caso si chiama così per l’Eneide di Virgilio, ma mi ha detto di no, che le hanno raccontato che il suo nome è quello dell’eroina di un romanzo.
La Cuba che ho capito io, che mi è rimasta addosso è a casa sua, in quelle chiacchierate stentate ma sincere, nella voglia di conoscersi, nella libertà di volersi già un po’ di bene.
La Cuba che ho capito io è anche quella degli autisti, Ramon e Salvador, che guadagnano 8 dollari al mese, strabuzzano gli occhi venendo a sapere a quanto ammontano gli stipendi medi in Italia, si sono costruiti le loro case personalmente, con l’aiuto di amici e parenti, un mattone sull’altro, fanno il bagno con un paio di pantacalze, perché non hanno il costume, comprano una medicina per i figli a 28 dollari, una di quelle che non è prodotta in patria e va cercata alla clinica internazionale. Bevono il rum come fosse gassosa (o quasi) e ti alzano il pugno per salutarti all’aeroporto nell’ora del ritorno con uno sguardo di nostalgia e un sorriso.
Ma Cuba è anche Yolanda di Pablo Milanes e la gente che suona, canta e balla, è Fidel e il Che, Ernesto Guevara de la Sierna, è la propaganda, il mango e il riso e fagioli, occhi neri che ti guardano, giovani sul Malecon con qualche topolino che balla, la palma reale, i ficus grandi come una stanza da pranzo, il guida Gilberto (“il” perché è màschile, come preciserebbe lui) e la sua famiglia, le scarpe similvela con la para di gomma di 10 centimetri comprate col risparmio di peso su peso per un anno, le farfalle giallo e arancio, la canna da zucchero, la rivoluzione, tanta gente sul cassone dei camion, le Popular, la fila per la libreta, le macchine americane anni '50, la vernice celeste opaca, la Mesa Redonda, Camilo Cienfuegos, il caldo umido dell’Havana, i luoghi in cui i cubani non possono andare e gli stranieri sì, il ron, il mio trentunesimo compleanno, l’inno nazionale, O Bella Ciao. Un popolo che cammina, guarda, vive nella contraddizione e nel cambiamento.
E’ probabilmente soprattutto tutto quello che non ho visto e capito, che mi spinge a fare tesoro del poco visto e capito, a condividerlo e a confrontarlo. A tenerlo d’occhio e approfondirlo. A continuare il mio viaggio a Cuba da Paderno Dugnano o da dovunque e insieme a quelli che lo faranno da ora in poi.
Con noi erano in viaggio: Angela, Beppe, Simona, Silvano, Elisa, Claudio, Lorena, Andrea, Cristina, Maia (con la i), Daniela e Carla.
Anche loro per me sono un pezzetto di Cuba.