Questo sito utilizza cookie anche di terze parti necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la nostra cookie policy. Cliccando sul tasto ACCETTO dai il consenso all’utilizzo dei cookie, il messaggio sul banner verrà nascosto.

Pindorama

Viaggio in Benin

di Massimo
Un gruppo di Equo Mercato è stato a luglio in Benin per valutare la fattibilità di futuri viaggi di turismo responsabile. Le premesse per fare bene ci sono tutte, come si legge dal racconto di Emilio…. Il prossimo viaggio in Benin è in programma a dicembre. Se qualcuno pensa che incentivare l'uso dei motorini sia una soluzione al problema dell'inquinamento urbano dovrebbe passare un paio di giorni a Cotonou. Qui i mototaxi sono padroni delle strade, sgusciano tra le auto e si intasano agli incroci sputacchiando un fumo denso e acre che ammorba l'aria. Fazzoletti sulla bocca e mascherine, improvvisate usando i copriocchi distribuiti sugli aerei, diventano subito di un colore indefinibile e servono a ben poco per proteggersi da questa coltre di fumo prodotto dalla pessima benzina contrabbandata dalla vicina Nigeria. L'unica difesa possibile è chiudere i vetri dell'automobile e azionare l'aria condizionata, ma è un privilegio riservato a pochi, e la possibilità di noleggiare un pulmino con l'aria condizionata è stata una delle prime richieste che Pascal ci ha fatto, prima di cominciare a organizzare questo viaggio di prova, dal quale dovrà nascere una proposta di turismo responsabile in Benin. L'idea è nata quattro anni fa, quando Equo Mercato ha cominciato a importare arachidi da Vie pour Tous, una cooperativa di piccoli agricoltori sorta da un'iniziativa di Mani Tese. Pascal Adevi è beninese, ma vive da anni a Firenze, dove collabora appunto con Mani Tese, e viaggia tra i due paesi seguendo vari progetti. L'idea di accompagnare dei turisti un po' particolari, interessati a conoscere la realtà del Benin al di là dei circuiti turistici più o meno frequentati, gli era subito piaciuta, ma era rimasta inattuabile per mancanza di tempo fino all'anno scorso, quando ha deciso che d'ora in poi si fermerà in Benin per alcuni mesi all'anno: quanto basta per organizzare i viaggi. Ma come fare per concretizzare l'idea? Equo Mercato è ovviamente interessata a far sì che molte persone possano conoscere direttamente i produttori da cui importa, ma non ha né il tempo né le competenze per fare da agenzia turistica. Ma a Milano c'è Pindorama la prima struttura nata proprio per organizzare viaggi di turismo responsabile, che abitualmente fornisce a Equo Mercato i biglietti aerei per i viaggi di visita ai produttori e naturalmente è ben disposta a mettere a disposizione i suoi servizi. Così le condizioni per cominciare ci sono tutte: una organizzazione italiana di turismo responsabile e un accompagnatore che conosce bene il paese da visitare, parla italiano ed è in grado di parlare anche con gli abitanti dei piccoli villaggi nelle loro lingue locali (non proprio tutte, ma quanto basta per intendersi). A questo punto, per verificare se il viaggio è davvero realizzabile, bisogna fare una prova ed è per questo che un gruppetto di sette persone, disposte a fare da cavie, è venuto in Benin e ora gira sul pulmino in mezzo al umo di Cotonou, approvando in pieno la richiesta dell'aria condizionata. Le strade semivuote che abbiamo percorso ieri notte arrivando dall'aeroporto ora sono animate dal frenetico andirivieni dei motorini e dalle innumerevoli bancarelle in cui tutto che quello che può essere venduto viene messo in esposizione. Pascal è preoccupato. Forse il programma che ha predisposto è troppo denso di incontri, forse l'albergo non va bene, forse vogliamo riposarci un poco dal viaggio, e soprattutto dobbiamo stare attenti a quello che mangiamo perché non vuole rischiare di accompagnare dei turisti sfiancati dalla diarrea. Lo rassicuriamo. La scelta degli alberghi la verificheremo via via, ma il primo sembra corrispondere perfettamente a quanto ci si aspetta da un viaggio di turismo responsabile: un alberghetto dignitoso, a prezzi accessibili, abbastanza pulito e con aria condizionata, e c'è pure la piscina. Il primo incontro è con la cooperativa Arti Savon, tra Cotonou e Porto Novo. Sono un gruppo di donne che producono saponi utilizzando olio di palma e burro di karité proveniente dai vicini villaggi e lavorati con il metodo a caldo usato per produrre il sapone di Marsiglia. Roufine, presidente della cooperativa ci accoglie calorosamente e ci racconta di come l'esportazione dei loro saponi a Equo Mercato abbia portato un po' di sicurezza economica al gruppo. Ci illustra le diverse fasi di lavorazione, ci spiega come funzionano gli approvvigionamenti di materie prime e parla dei problemi di qualità imposti dall'esigenza di vendere il prodotto in Italia. Andiamo quindi a mangiare con loro. Pascal si chiede se questi incontri piaceranno ai gruppi. Lo rassicuriamo, siamo qui per capire come si vive in Benin e questa è una esperienza rappresentati va delle piccole realtà produttive sorte attorno alle grandi città, frutto dell'iniziativa di un gruppo di donne disoccupate che hanno cercato di risolvere i loro problemi economici dandosi da fare assieme. Lo spirito di solidarietà è forte, anche se non mancano i problemi, come l'allontanamento, che ci raccontano con tristezza, di una socia sorpresa a rubare nella cassa. Le donne e le ragazze del gruppo approfittano per fare una scorta di saponi naturali, confezionati con erbe e profumi locali e che sembrano avere proprietà miracolose, e al momento dei saluti carichiamo sul pulmino il primo scatolone di una serie di "cadeaux" destinata a crescere nei giorni successivi. La realtà produttiva del Benin è però essenzialmente rurale e il nostro programma prevede quindi una fitta serie di incontri con cooperative di agricoltori, che ci terranno impegnati nei giorni successivi, alternate a qualche puntata alle mete turistiche tradizionali, che naturalmente non possono essere escluse dal viaggio. Visitiamo così una cooperativa di produttori di ananas, una di produttori di manioca, e un'altra di olio di palma, e infine anche un gruppo che produce grappa dal vino di palma, in una distilleria ricavata sotto una bassa tettoia piena di fumo e vapori, che sembra un antro infernale. Sono tutti piccoli gruppi che vendono i loro prodotti sul mercato locale, ricavando un profitto misero dal loro lavoro. E quanto sia faticoso questo lavoro abbiamo modo di verificarlo direttamente. Tutti ci tengono a mostrare le diverse fasi di lavorazione, svolte in modo tradizionale, con pochi attrezzi estremamente semplici e primitivi. I produttori di ananas ci portano nei loro campi, dove giacciono mucchi di frutti che rischiano di marcire perché il camioncino che doveva venire a ritirarli non è arrivato: il loro sogno è di riuscire a comprare un furgone. Ci raccontano che vendono la maggior parte degli ananas a una società che li esporta in Europa, ma i prezzi sono molto bassi, e devono selezionare solo i frutti che rispondono a rigidi criteri di qualità, così la parte di produzione che non possono vendere cercano di lavorarla in proprio. Purtroppo non hanno macchine e producono il succo di ananas spremendo i frutti a mano e imbottigliandolo come facciamo noi in casa con la salsa di pomodoro. È un succo ottimo, molto più dolce e profumato di qualunque marca si possa trovare sugli scaffali dei nostri supermercati, ma faticano a venderlo, perché quello di produzione industriale costa molto meno. Quando li salutiamo, dopo aver pranzato con loro, abbiamo sopra il pulmino un sacco con 40 ananas che ci accompagnerà per parecchi giorni, finché non decideremo di regalarli quando il succo comincerà a colare sui finestrini. La manioca è l'alimento principale in tutto il sud del paese, coltivata assieme al mais in questi campi di terra rossa e soffice, ben irrorata dalle piogge abbondanti. La cooperativa che visitiamo si chiama Condeau, che nella lingua locale suona come un forte invito a darsi da fare, ed è guidata da Patrice, un tipo simpatico ed efficiente che dopo aver studiato geografia all'università ha deciso di darsi all'agricoltura e si è formato in un centro di Mani Teste al nord del paese. Ci spiega che l'obiettivo del loro lavoro è dimostrare che il Benin può arrivare all'autosufficienza alimentare, sfruttando bene le buone capacità produttive del terreno, selezionando le sementi e le piante di qualità migliore e seguendo rigorosi sistemi di coltivazione. Intanto abbiamo visitato Ganvié e ci siamo spostati a Gran Popo, in bell'albergo sul mare. Ganvié è un villaggio su palafitte sulla laguna interna formata dal fiume Mono e abitato da pescatori che sono arrivati qui tre secoli fa, e continuano a vivere sull'acqua. Qui la chiamano la Venezia del Benin e la considerano una meta turistica da non mancare, ma le case sono baracche di legno e le condizioni di vita sono davvero difficili; noi possiamo lasciare la laguna prima che il sole cali e le zanzare comincino a imperversare, ma per chi ci vive la malaria è una vera maledizione. Poco fuori Gran Popo si trova la cooperativa Solignon, formata da un gruppo di donne che producono olio di palma. Ci accolgono con una canzone di benvenuto e ci accompagnano a veder come si raccolgono i frutti, impartendoci una lezione sui diversi tipi di palma. Restiamo con loro per una intera giornata, in un fresco cortile popolato di bambini, dove gli uomini fanno i lavori pesanti, come arrampicarsi sulle palme per raccogliere i frutti o pestarli per separare la polpa dai noccioli, mentre le donne seguono tutte le complesse fasi di cottura e lavorazione, fino ad ottenere un olio rosso e rofumatissimo. Sono fiere di mostrarci questa complessa lavorazione, e come dalla palma si possano ricavare tanti prodotti diversi: le bucce dei frutti si lasciano seccare formando dei panetti da bruciare, i noccioli si spezzano e anche il loro guscio legnoso serve da combustibile, mentre dal seme interno si ricava un altro olio, detto di palmista, che ci mostreranno come si ottiene il giorno successivo. La meta turistica d'obbligo in questa regione del Momo è Ouidah, la città portuale dell'antico regno del Dahomey, da cui partivano gli schiavi per le americhe. Qui visitiamo il museo ricavato nel vecchio forte portoghese, dove sono custodite le vestigia dell'epoca coloniale e si teneva il mercato degli schiavi. Dalla città al mare si snoda la strada che percorrevano per imbarcarsi sulle navi negriere, che oggi termina nella grande "Porta del non ritorno", un monumentale arco costruito nel 1995, dove restiamo in silenzio a guardare la spiaggia, ultimo lembo di terra su cui si poteva ancora morire ed essere sepolti vicini ai propri antenati. Può sembrare strano che la stessa pianta che dà l'olio dia anche il vino, ma da queste parti è così. Quando la palma da olio è vecchia e non produce più abbastanza frutti viene abbattuta, spogliata delle foglie e nel cuore della cima si ricava un foro da cui la linfa, che continua a risalire il tronco, viene spillata in una bottiglia. Ogni giorno i raccoglitori visitano le palme abbattute per ritirare le bottiglie, piene di un liquido biancastro e dolce, che fermenta rapidamente diventando frizzante e leggermente alcolico. Da questo vino di palma si ricava una forte grappa, che qui viene consumata come aperitivo o come rimedio per tutti i mali, dopo averci aggiunto erbe o scorze secondo le ricette tradizionali. La visita alla cooperativa che produce questa bevanda è la più impegnativa di tutte, visto che non ci possiamo esimere, fin dal mattino, dall'assaggiare il vino più o meno fermentato e la grappa di prima distillazione, che naturalmente è la più forte. L'ultimo appuntamento che ci aspetta in questa regione del sud è nel villaggio di Houndjohoundji per assistere a un rito voudu. Molti arrivano in Benin solo per questo, perché qui è nata questa antica religione, portata poi dagli schiavi in Brasile e nei Carabi, e rimbalzata nell'immaginario dei bianchi grazie al fascino del mistero e dell'esotico. Pascal ha scelto questo villaggio perché è il vincitore di una sorta di concorso che si tiene ogni anno a Cotonou, in cui i fetisceur confrontano la loro potenza nel fare miracoli: abbiamo pagato 50.000 CFA per assistere alla cerimonia e vedere questi miracoli. Nella piazza del paese, opportunamente scopata e ripulita, si raduna una piccola folla: bambini e anziani, e un gruppo di giovani che cominciano a battere sui tamburi un ritmo ossessivo al quale si uniscono un gruppo di ragazze che cantano e ballano. I feticci entrano da un angolo della piazza. Sono delle specie di covoni di paglia colorata, guidati da un fetisceur, che li fa correre e piroettare. Chi c'è sotto il covone? Dopo una serie di danze e quando il ritmo della musica si fa più incalzante arriva un feticcio che viene rovesciato dagli accompagnatori, per mostrare che sotto è vuoto. Viene rimesso in piedi e, dopo qualche scuotimento, rovesciato di nuovo per mostrare che sotto è comparsa una tartaruga. Poi il feticcio copre la tartaruga e quando viene rovesciato di nuovo questa è scomparsa: il primo miracolo si è compiuto. Ne seguono altri, in cui compaiono due tartarughe, un covoncino più piccolo, una bambolina che ruota, e alla fine, dietro pagamento di altri 2000 franchi, il feticcio ci offre ancora un ultimo miracolo nel quale compare un grosso granchio che avanza minaccioso verso di noi, ma viene subito fermato dal fetisceur. Il nostro atteggiamento è piuttosto scettico, e quando Pascal ci chiede cosa pensiamo dei miracoli, cerchiamo di dare delle spiegazioni razionali, come si farebbe di fronte a giochi di prestigio ben riusciti, ma non vengono accettate. Ci accorgiamo che il vudu è una cosa seria, non una esibizione per turisti. Dietro i miracoli dei fetisceur c'è una cultura complessa, in cui le forze misteriose della natura trovano una spiegazione magica, che appare inaccettabile per la nostra cultura di occidentali, ma che è pur sempre una spiegazione. Contrapporre a questa cultura la nostra visione razionale e scientifica della realtà significa innalzare un muro, che rende impossibile comunicare; meglio ascoltare i racconti di uomini che si trasformano in animali, dei feticci che fanno accorciare le braccia di chi ha schiaffeggiato un vecchio, o degli anziani che hanno il potere di chiamare o fermare la pioggia, liberi di crederci o meno. Il trasferimento verso il nord del paese richiede un giorno di viaggio. Da Cotonou a Natitingou sono 640 km di strade asfaltate e abbastanza buone e valutiamo che anche nei prossimi viaggi varrà la pena di percorrerli tutti in un giorno, anche perché alla fine ci aspetta un bell'albergo dove possiamo concederci un bagno nella piccola piscina. Qui siamo nella regione dei tata somba, famosi per le loro case a due piani, sormontate da torrette col tetto conico di paglia, che sembrano disegnate per un cartone animato. Nei villaggi somba lavorano le donne della cooperativa Tebeniketé, che producono monili di fili d'erba intrecciata. La materia prima è estremamente povera, fili d'erba secca che crescono lungo i sentieri, e la bellezza e il valore dei gioielli nascono dalle mani delle donne che intrecciano la paglia con incredibile abilità e pazienza. Visitiamo il laboratorio della cooperativa dove alcuni uomini completano il lavoro di confezione dei monili e ci spiegano che la cooperativa è stata fondata una decina di anni fa da un somba, tornato al suo villaggio dopo aver sposato una tedesca mentre era in Europa come insegnante universitario. Qui è tornato a insegnare al liceo di Natitingou, lasciando la carriera accademica per restare tra la sua gente, e tutti lo chiamano "il professore". I legami che aveva stabilito in Germania gli hanno permesso di trovare uno sbocco ai gioielli nei canali del commercio equo, e da qualche anno si trovano anche in Italia, importati da Equo Mercato e Commercio Alternativo. A un centinaio di chilometri da Natitingou si trova il parco naturale del Pendjari, il più grande del Benin, un'altra meta obbligata da inserire nel giro. Purtroppo in questa stagione è chiuso e il direttore ci spiega che, se solo fossimo arrivati una decina di giorni prima avrebbe potuto accordarci il permesso di una visita, anche se il parco chiude ufficialmente alla fine di giugno, ma ora sono cominciate le piogge e le strade interne sono davvero impraticabili. Dobbiamo rinunciare, ma decidiamo che di proporre un viaggio nel periodo natalizio, quando il parco è aperto, prevedendo almeno quattro giorni per visitarlo. Il viaggio è ormai alla fine e per completare le mete turistiche obbligate ci manca soltanto la città di Abomey, antica capitale del regno del Dahomey, che comprendeva la maggior parte dell'attuale Benin in epoca precoloniale. Ci fermiamo qui durante il viaggio di ritorno a vistare la reggia degli antichi re, ora trasformata in museo, e a prendere contatti con una associazione di artigiani che producono dei caratteristici pannelli con applicazioni di tessuto colorato illustranti gli antichi simboli dei re. Come tutti i turisti che si rispettino prima di ripartire per l'Italia vogliamo visitare qualche mercato a Cotonou, ma anche in questo cerchiamo di essere "alternativi", così decidiamo di incontrare la Association des Femmes Amies (Afa), una organizzazione di donne che opera nei mercati con i bambini e soprattutto le bambine che lavorano ai banchetti di vendita. I bambini dei mercati arrivano da villaggi lontani, affidati dai genitori a intermediari dietro la promessa che potranno studiare e vivere meglio che al villaggio, ma si trovano invece a fare da servi per i padroncini del mercato, sia dietro i banchi che nelle loro case, senza il tempo di studiare o giocare e per un misero salario, spesso peraltro interamente incamerato dagli stessi intermediari. L'Afa cerca di organizzare questi ragazzi, incontrandoli in alcune povere baracche costruite nei mercati dove offre loro dei corsi di alfabetizzazione e momenti di gioco e ricreazione in cui si parla anche dei loro diritti. Justine, la coordinatrice, ci spiega che questa forma di sfruttamento dei bambini deriva in parte dalla tradizione di mandare i giovani dei villaggi in città, presso i parenti, per poter studiare. Una tradizione che però si è ormai trasformata in un vero e proprio traffico dei minori, che si stima coinvolga circa 100.000 bambini dai 5 ai 15 anni. Ufficialmente il Benin ha ratificato le convenzioni internazionali contro il lavoro minorile, ma non servono a nulla per fermare questo traffico. Nessuna legge impone dei controlli o delle sanzioni e i padroni non hanno nemmeno la percezione di fare qualcosa di male facendo lavorare i bambini, e anche nel caso di maltrattamenti godono di fatto di una assoluta impunità. Combattere contro questa realtà rischia di scatenare una guerra tra poveri, perché i padroncini del mercato non sono certo, per la maggior parte, gente ricca. L'Afa sta cercando di agire su due fronti: da una parte andando nei villaggi a spiegare ai genitori quale è la reale condizione dei loro figli, e dall'altra cercando di conquistare una certa autorità nei mercati, in modo da convincere i padroncini a permettere ai bambini di incontrarsi e di studiare. Su questo secondo fronte hanno registrato un notevole successo dopo che, grazie a un finanziamento di Emmaus, hanno potuto lanciare una attività di microcredito alle donne che gestiscono i banchi dei mercati. Piccoli prestito di qualche decina di migliaia di CEFA, che permettono alle donne di non acquistare più a credito dai grossisti, e grazie ai quali Afa è ora vista come una organizzazione autorevole, che può chiede in cambio il rispetto di alcune regole, soprattutto per quanto riguarda le condizioni dei bambini lavoratori. Anche sul fronte dei villaggi i risultati sono stati positivi. i genitori, quando si rendono conto della realtà di ruttamento imposta ai loro figli, cercano di riportarli al villaggio, e costituiscono dei comitati che si oppongono agli intermediari quando tornano nella stessa zona. Ma il problema per continuare questo lavoro sono le risorse economiche. Afa non dispone di fondi né di partner che ne finanzino le attività, così ora non ci sono soldi per girare nei villaggi e il lavoro di sensibilizzazione è fermo, con il rischio che anche le strutture costruite in alcuni villaggi si sfaldino perché non hanno più contatti con l'associazione. Naturalmente in Benin ci sono agenzie internazionali e ONG che si occupano di bambini, e che spendono molti soldi per campagne di informazione alla televisione o alla radio, o per studi, incontri e proposte di esperti, ma nessuna di queste lavora a diretto contatto con i bambini lavoratori cercando di organizzarli nei mercati e nessuna, almeno finora, ha voluto appoggiare l'attività dell'Afa. (articolo pubblicato su Altreconomia settembre 2002)