La Mojarra Rossa
di Franco Mazzarella
L’isola Zapatera è una riserva naturale che si trova nel lago Cocibolca in Nicaragua. Nel lago vive un pesce molto gustoso chiamato mojarra che generalmente è di colore nero anche se alcuni rari esemplari sono rossi. Una leggenda che circola tra gli abitanti dell’isola racconta che il viaggiatore che mangia una mojarra rossa si sente talmente attratto dal luogo in cui si trova che non riesce più a lasciarlo.
Io non ho notato di che colore fosse la mojarra che ho mangiato quando ero sull’isola. Sta di fatto che al momento di partire era come se ci fosse qualcosa che mi impediva di farlo.
Giunsi sull’isola con un gruppo di viaggiatori e viaggiatrici che, come me, avevano scelto di visitare il Nicaragua senza avvalersi dei tour operators tradizionali. Il nostro scopo era conoscere la realtà del paese attraverso il contatto diretto con la popolazione, cercando di condividere, per quanto possibile, la vita dei locali.
Arrivammo da Granada una mattina a bordo di una lancia. Il primo contatto con gli abitanti dell’isola è stato un incontro con il collettivo delle donne della comunità di Sonzapote che fu davvero entusiasmante. Storie di guerra, di abbandono della propria terra, di esilio, di lotte per far valere i propri diritti. Nelle parole di quelle donne forti e fragili allo stesso tempo si sentiva tutta la fierezza di un popolo. Ogni tanto il racconto veniva interrotto dal pianto di qualche bambino che dava segni di insofferenza per poi calmarsi allattato al seno materno. Il racconto delle donne durò fino a sera e saremmo stati ad ascoltarle per chissà quanto tempo ancora se non avessimo dovuto incamminarci su per la collina verso le nostre abitazioni prima che facesse buio. Nell’isola Zapatera, infatti, non c’è illuminazione pubblica, poiché non esiste una rete elettrica.
Le poche luci elettriche sono prodotte da batterie ricaricate da pannelli solari e quindi usate con parsimonia.
Per cena mangiammo mojarra alla brace. La prima cosa a cui ho pensato appena vidi quel pesce è stata la leggenda. Ma, alla debole luce della candela, a stento riuscivo a vedere le innumerevoli spine e non notai nulla circa il colore.
Alle prime luci dell’alba il paesaggio visto dalla collina dove alloggiavamo era davvero emozionante. Il vulcano Mombacho che sovrasta Granada era proprio di fronte a noi e la sua presenza ha caratterizzato le innumerevoli foto con cui ciascuno di noi ha immortalato il proprio tramonto.
Durante il viaggio, che volgeva quasi al termine, mi ero chiesto dove avrei potuto trovare una chitarra con la quale ero solito allietare la compagnia. Finalmente, proprio sull’isola, ne avevo trovata una e quella sera improvvisammo un concerto con musica ranchera e canzoni degli intramontabili Inti Illimani. Talvolta i bambini partecipavano al coro ma gli adulti restavano silenti, prigionieri della loro timidezza. Un abitante dell’isola che chiamano “il padre” solo “a riflettori spenti”, ma forse è il caso di dire “a candele spente”, ha preso la chitarra in mano ed ha suonato una tipica musica nica. Abbiamo così continuato a suonare fino a tardi, incuranti del fatto che l’indomani ci saremmo dovuti alzare presto perché bisognava ripartire. Io però avevo deciso di fermarmi un’altra mezza giornata sull’isola, il tempo necessario ad assistere ad una conferenza in cui Lidia, una cooperante che veniva dal Guatemala, avrebbe portato la propria testimonianza sulla situazione di quel paese.
La mattina dopo scesi giù all’imbarcadero per salutare i miei compagni e le mie compagne di viaggio. Con alcune di loro ci abbracciammo come se non avessi dovuto vederle per chissà quanto tempo. Il colore della mojarra mangiata la sera prima stava diventando un’ossessione. Poi vidi la lancia allontanarsi finché non diventò un puntino che si perdeva all’orizzonte. Ero “solo” sull’isola. Un’occasione unica per parlare con la gente del luogo. Alla cuoca della comunità, che mi aveva preparato un’eccellente colazione, avrei voluto chiedere se qualcuna delle mojarras cucinate la sera prima fosse stata di colore rosso, ma non ho osato farlo. Parlammo, invece dell’isola e dei suoi problemi. Nel salutarmi mi ha confidato che quella sera avrebbe sentito la mancanza della mia musica. Poi ho incontrato quello che chiamano il “padre” che mi parlava dei modi di dire tipici dell’isola, cose che non si imparano in nessun libro. I bambini che mi incontravano mi chiamavano “el musico”. Mi sentivo come in famiglia.
Finalmente arrivò Lidia. Parlò del diritto alla terra, sostenendo che essa dovrebbe appartenere a chi la coltiva e ne trae nutrimento per sé e per la sua famiglia. Poi parlò di un argomento a me molto caro: i danni ambientali causati dalle miniere d’oro. Non riuscii a resistere alla tentazione di prendere la parola e lo feci per dire che oggi in Guatemala, ma non solo lì, l’oro si estrae utilizzando il cianuro che viene poi riversato nei fiumi. Però non mi dilungai oltre perché non volevo sottrarre tempo agli altri interventi. Mi limitai ad affermare che senza oro si può vivere ma senza acqua no.
La conferenza, ma forse è il caso di dire la chiacchierata, si concluse quando quasi tutti i membri della comunità, vincendo la propria timidezza, presero la parola. Si era stabilito un clima confidenziale, come se tutti e tutte ci conoscessimo da tempo.
Arrivò così il momento di lasciare l’isola.
Scesi all’imbarcadero con il cuore gonfio di emozioni. La lancia era lì che aspettava. Iniziò a salire Lidia, poi i suoi accompagnatori. Io salii per ultimo. Non avrei voluto andarmene. Mi venne in mente la mojarra che avevo mangiato. Il barcaiolo accese il motore. La lancia iniziò ad allontanarsi dall’isola che mi appariva sempre più piccola. Il distacco era stato forte ma ero riuscito a superarlo.
Forse nella vita non sempre è tutto rosso o tutto nero, e ciò deve valere anche per le mojarras.