India: il dono delle domande
di Luca D’Ammora
Ma che cosa vai a fare in India ?
Già, che cosa vado a fare in India ?
Che cosa vado a fare nel paese che ha il più alto numero di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà assoluta, che ha il maggior numero di bambini malnutriti, il maggior numero di analfabeti, il maggior numero di morti per parto, il più alto tasso di lavoro minorile..
Che cosa vuol dire fare un viaggio responsabile e consapevole in una terra
caratterizzata da simili primati ?
Forse sono alla ricerca di domande, prima ancora che di risposte.
Ecco, sì, vado in India alla ricerca di domande. Domande che mi scuotano,
che incrinino le certezze che mi vengono propagandate in televisione, che
leggo sui giornali, che emergono spesso durante le discussioni con gli amici
e i colleghi.
La domanda, il dubbio: uno stato della coscienza che dovrebbe essere naturale.
Ma che non lo è affatto nella nostra vita fatta di modelli da accettare,
di immagini viste e non guardate, di suoni uditi e non ascoltati, di luoghi dove si va e
non di esperienze e relazioni vissute.
Per fortuna è sufficiente mettere piede in questo paese e subito le domande
ricominciano a nascere spontanee: ne vengo travolto, così come dai colori,
dai sapori, dagli odori, dagli sguardi e dai sorrisi.
Perché qui la fatica dell'uomo non vale nulla ? Per comprare un biglietto aereo
come quello che mi ha portato qui un indiano dovrebbe lavorare mediamente
cento volte più di me, e in condizioni incomparabilmente meno agevoli delle mie.
Il Prodotto Interno Lordo indiano aumenta ogni anno: perché non si traduce
in meno morti per fame, in maggiore scolarizzazione, nella possibilità per molti di vivere,
e non semplicemente di sopravvivere ?
E’ vero che la ricerca del profitto, l'unica regola del mercato
liberalizzato, produrrà il miglioramento delle condizioni di questo immensità di persone ?
E se sì come mai da quando il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale
hanno imposto il libero scambio delle merci e degli investimenti
stranieri si muore di fame più di prima ?
Che interesse può avere il consiglio di amministrazione di una
multinazionale a migliorare le condizioni di vita di persone che hanno
da offrire solo costi di manodopera bassissimi?
Chi si preoccupa delle conseguenze che possono avere la biogenetica e l'imposizione dell'agricoltura da esportazione, che fa arrivare sulle tavole dell'occidente prodotti sempre più 'progettati' per i gusti
di chi ha i soldi per comprarli, ma che priva le
popolazioni locali delle secolari ed ecosostenibili colture tradizionali?
Fino a quando avremo la
possibilità di continuare a vivere come se non ci fossero 30 milioni di
persone che ogni anno nel mondo muoiono di fame, come se tutto ciò non
accadesse ?
Che cosa sovvertirà questo ordine mondiale, che cosa ci farà
uscire da questo equilibrio, che è evidentemente un equilibrio instabile ?
Che cosa ci farà spalancare gli occhi (ma non più per compatire) su questa
immensa maggioranza oppressa (i Dalit, come si autodefiniscono gli
Intoccabili in India) che non sono una peculiarità dell'India, ma sono il
60% della popolazione mondiale ?
Queste domande sono il regalo dei bambini di strada e delle donne artigiane
della baraccopoli di Madras, della comunità di Intoccabili di Kallupatti,
dei contadini del Karnataka, della comunità di disabili di Bangalore, di chi
si batte con le popolazioni tribali contro lo sgombero di
centinaia di villaggi che devono (lo dice la Banca Mondiale) fare posto a
gigantesche dighe. Bambini, uomini e donne che, con l'infinita pazienza e
modestia delle persone semplici e umili, ci hanno accolto, offerto il loro
tempo e condiviso i loro pensieri, ci hanno permesso di entrare nelle loro
case, a noi, che per innumerevoli ragioni del passato e del presente
rappresentiamo l'immagine dell'opulenza e dello sfruttamento.
Mi sento addosso la responsabilità del dono che questo paese e questa gente
mi hanno fatto, la responsabilità di dover trovare delle risposte a queste
domande, e di agire e vivere coerentemente con le medesime.