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Pindorama

Oltre la superficie…

di Vito Mele
Guatemala: agosto 2000. Sembra già distante. Distante da qui, dall'Italia in campagna elettorale, che segue le imprese delle olimpiadi, che si aggiorna sull'ultima generazione di telefonini cellulari, che elegge la miss nazionale con democratiche elezioni via telefono. Lontano da Torino e dal mio lavoro fatto di computers, dalle incombenze quotidiane, da amici appiattiti dalle esigenze di mogli (o mariti) e figli o dagli stress lavorativi. Eppure non ancora passato un mese dalla fine del viaggio. Un viaggio in un paese di cui difficilmente di sente parlare: certamente non è scritto sulle banane che troviamo al supermercato "made in Guatemala", nè è facile che i mass-media si occupino di un certo Rios Montt o di Rigoberta Menchù. Si tratta quindi di un Paese poco significativo o che interessa solo un target di persone particolari... Più o meno la stessa proporzione matematica che c'è tra il sentir parlare di un viaggio Alpitour o Pindorama. Che cosa c'è dunque di buono in Guatemala? Cosa c'è di particolare da vedere? Se qualcuno mi facesse queste domande dovrei pensarci un po' per trovare una risposta... ...Eppure potrei parlarne letteralmente per ore... ed è in questo che si rivela la particolarità di un viaggio che segue canali diversi da quelli dei pacchetti dei tour operators: che cioè se ne ottiene come risultato una esperienza del tutto particolare perché strettamente personale, certamente più relativa rispetto a ciò che è scritto nelle guide turistiche e perciò più difficile da comunicare a chi questa esperienza non l'ha mai sperimentata, ma fatta di sensazioni e pensieri suscitati dalla possibilità di avvicinare in maniera più efficace la realtà di laggiù. ...Così se penso al viaggio come "immagini di lotta e di speranza" faccio fatica ad individuarne. Anzi, a tutta prima forse non ne trovo. Non di lotta, perché dal '96 non c'è più la guerra. Non di speranza perché l’impressione generale è quella di un paese in via di sviluppo, che come tale è traboccante di contraddizioni sociali (ma quale realtà non è contradditoria?). E invece forse no. Non c’è più la guerra, ma Mario ci dice che l’esercito è ancora molto potente e continua a controllare la vita sociopolitica della nuova “democrazia” anche se le violazioni dei diritti umani sono diminuite. Il fatto è che la guerra non è più quella “civile” (ma, come scriveva Don Milani, la guerra non è mai civile), che contrapponeva i campesinos con le loro poverissime unità di resistenza al dotatissimo esercito. La guerra ora è quella che ogni guatemalteco deve combattere per avere il diritto di accedere a quelle risorse per noi occidentali così banali e scontate: la guerra per disporre dell’acqua da bere, dell’energia elettrica, di cure mediche, di una istruzione di base, di terra coltivabile, di formazione professionale... Così rivedo con gli occhi della memoria il piccolissimo villaggio di Chisiguan, vicino a Chimaltenango e i suoi abitanti catapultati in pochi mesi dal medioevo al novecento: da poco hanno la corrente elettrica e con essa la possibilità di usare l’acqua di un pozzo e la luce nelle loro case di lamiera, cartone e terra pressata... Poche famiglie strette intorno a due leaders della comunità che hanno portato avanti la lotta per una vita migliore da che furono sfollati dall’esercito dalle loro terre d’origine e decisero di non abbandonare il Guatemala. Una battaglia fatta di impegno sociale e politico, di tenace resistenza e di solidarietà... eppure la loro povertà tanto grande non ha scalfito la dignità e la generosità con cui questa gente ci ha invitato nelle loro case. Una battaglia vinta e un’altra che continua nel loro sforzo di risparmiare il necessario per comprare terra sufficiente per trarre sostentamento per le loro famiglie. Famiglie numerose. Il Guatemala sta vivendo un periodo di esplosione demografica. Questo è motivo di preoccupazione perché la terra non è sufficiente per gli oltre 13 milioni di persone. Il problema è acuito dalla realtà dei latifondi nelle mani di una minoranza di ricchi e di compagnie multinazionali Sono coltivati soprattutto a caffè, banane e canna da zucchero e sono eredità della penetrazione statunitense e dei lunghi decenni delle dittature militari. Le 23 etnie del Guatemala in quanto direttamente discendenti dal popolo Maya continuano a vivere la loro identità in modo assolutamente legato alla terra, ma questo modello non potrà reggere a lungo l’impatto con una realtà in tumultuoso cambiamento. Qui anche la contraccezione assume aspetti contrastanti alla luce dell’analfabetismo, del sincretismo religioso tra gli antichi riti maya e quelli del cristianesimo in una società prevalentemente agricola in cui i figli sono forza lavoro. Trasformazioni inevitabili in un pianeta in cui il concetto di etnia è destinato a smarrirsi con i movimenti migratori, delle guerre, delle carestie, dell’offerta lavorativa, dei matrimoni: anche questo si può guardare considerando i disastri che da sempre ha prodotto l’intolleranza etnica o come perdita di identità culturali vera ricchezza dell’umanità. Certamente nessun altro tour operator porta i turisti a vedere simili villaggi e forse nessuno di loro può cogliere certi interrogativi senza il ponte culturale di chi ha qui la sua vita. Così chi cerca conferme rispetto al proprio stile di vita occidentale o pensa al viaggio unicamente come vacanza può trovarsi disorientato dagli stimoli che ne riceve. Non è facile non pensare se si vede oltre la superficialità. Anche Mario e Micaela appaiono a tutta prima due persone non più giovanissime della borghesia istruita ed economicamente abbastanza agiata (rispetto allo standard di vita medio), tanto da potersi permettere due figli all’università e uno ad una scuola privata, una casa abbastanza grande e bella. Un’ex insegnante ora in pensione e un amministratore di una cooperativa (la Kato-ki) di oltre 4000 soci. Ma entrambi hanno attraversato con la loro vita la storia più o meno recente del Guatemala. E non se la sono lasciata passare addosso. Anzi hanno messo a repentaglio la loro esistenza con scelte consapevolmente difficili perché politicamente e socialmente motivate, e questo lo si scopre solo quando decidono di raccontare. Così emergono dalla loro memoria l’assassinio di Padre Apla’s mentre si visita Santiago Atitlan, l’attività clandestinamente portata avanti dagli attivisti della cooperativa negli anni feroci della “terra bruciata” mentre si visita la Kato-ki a Chimaltenango, episodi degli anni immediatamente successivi alla guerra e ancora fortemente segnati dalla violenza mentre ci spostiamo in pulmino verso una nuova tappa del viaggio, e via via, con pacatezza, quasi si trattasse di cose consuete, fino all’uccisione di Monsignor Gerardi. Un racconto regalato con semplicità, ma proprio per questo estremamente efficace nel rievocare gli elementi del Guatemala che in Italia si conoscono più o meno approssimativamente: la loro narrazione è vivida proprio perché vissuta in prima persona, e sono le immagini di una lotta condotta a rischio della vita. Viene così completamente stravolta l’impressione iniziale: a guardarli Mario, di carattere quasi schivo e Micaela piccola di statura, cicciottella e con non pochi capelli bianchi, con la pacata risolutezza dell’uno e con l’esuberante spirito organizzativo dell’altra. Loro continuano a parlare e scopro che è riduttivo descrivere i nostri accompagnatori solo in termini di episodi passati: loro ci aprono le porte della loro vita attuale e scopro che la loro attività è freneticamente impegnata su vari fronti da quello di una famiglia estremamente unita a quello di una cooperativa che produce beni esportati in vari paesi del pianeta attraverso i circuiti del commercio equo e solidale. Il loro è un impegno che vuol dire appoggio morale e materiale alle famiglie poverissime di Chisiguan, creazione e sostegno ad un centro di formazione professionale nel villaggio di Montecristo, relazioni con l’analogo centro di Coban, aiuto ai bambini più indigenti, progetti di sviluppo, accoglienza ad un ragazzo in affido. Tra questo infilano anche, un paio di volte all’anno, il far da guida a una manica di turisti italiani (ma non ho mai visto, personalmente, guide turistiche occuparsi così minuziosamente che tutto vada bene). Mi chiedo a lungo il perché di questo non concedersi una vita finalmente tranquilla. La risposta mi viene data da Micaela in uno degli ultimi giorni. Prima del simbolico interramento di una pianticella per un futuro “bosco dell’amicizia”: ogni alberello con il nome di coloro che hanno conosciuto direttamente la Kato-ki, viaggiatori Pindorama compresi, ce ne spiega il significato: “Noi abbiamo una strategia fondata su tre parole: donna, bambino, albero. La strategia dell’esercito e della politica della “terra bruciata” negli anni della guerra era quella di uccidere le donne, specialmente se incinte, in quanto madri di possibili guerriglieri. Con loro venivano uccisi i bambini perchè futuri oppositori e la foresta veniva distrutta per togliere rifugio alla resistenza popolare. Noi invece vogliamo che nel futuro le donne non subiscano più violenze e discriminazioni e i bambini ricevano istruzione per migliorare la società. Piantiamo gli alberi perchè sono il simbolo della vita. Certamente noi non vedremo granchè risultati del nostro lavoro perchè non siamo più giovani: per queste cose occorrono molti anni....ma non ci fermiamo perchè anche se non li vedranno compiuti nemmeno i nostri figli, possano vederli quelli di una prossima generazione.” L’immagine di speranza di Mario e Micaela: chi visiterà il Guatemala nei prossimi viaggi Pindorama li guardi bene, quei tanti bambini dall’espressione seria.